Il tempo è bello in quell'inizio d'estate. Il cielo è azzurro, il deserto color ocra è vuoto e calmo. Sole e guerra si danno appuntamento il 5 giugno nel Sinai. L'attacco aereo è improvviso. Israele sorprende gli egiziani con i pantaloni alle caviglie. I Mig di Nasser sono inchiodati al suolo, gli aeroporti distrutti. Due ondate di cacciabombardieri fanno a pezzi la più grande aviazione del Medio Oriente. A Tel Aviv ululano le sirene, messaggio sonoro di guerra. Al Cairo Nasser cerca di convincere se stesso e il mondo di poter vincere una guerra che ha già perso.
Israele all'attacco
La Guerra dei sei giorni non è orfana, ha tanti piccoli padri: i guerriglieri palestinersi, che da mesi martellano Israele dalla Giordania e dalla Siria; Nasser, grande maestro di avventurismo, che vuole risollevare un prestigio depresso; Damasco, retroterra della guerriglia stupida, quella che fa più danni a chi la pratica che a chi la subisce; l'Urss, che gioca sporco; l'Occidente, che fa lo struzzo; U Thant, il segretario generale dell'Onu, che ritira i caschi blu rompendo lo status quo («è come chiudere l'ombrello - commenta qualcuno - quando comincia a piovere»).
Gli ultimi spiccioli di pace
Il 22 maggio, nel Sinai, in mezzo ai suoi aviatori, Nasser ride senza pudore. Ha appena annunciato la chiusura dello stretto di Tiran: le navi israeliane non passano più dal golfo di Aqaba. Per Israele significa morte per soffocamento. Quella sera Rabin commenta freddo: «È la guerra». Il 30 re Hussein di Giordania è al Cairo da Nasser. Il bacio fra i due è la firma in calce alla guerra. La sensazione dell'accerchiamento è fisica, nelle farmacie di Tel Aviv non si trova più un grammo di veleno. È in gioco la sopravvivenza. Israele ha paura e chi ha paura colpisce duro. Il 1° giugno Dayan è al governo, e Dayan vuol dire guerra. Le uniche due incognite ormai sono il giorno e l'ora. Israele è troppo piccolo per subire: la geografia e la storia lo condannano all'attacco preventivo. Gli arabi hanno il tempo, lo spazio e il numero; Israele la solitudine, l'ossessione della sicurezza, la necessità di stravincere.
Un monologo
Il 5 mattina i piloti con la stella di David colpiscono al cuore l'Egitto e una giornata addormentata nel calore. Mai, dalla battaglia d'Inghilterra, il destino di un popolo è dipeso da un numero così piccolo di uomini. Il resto della guerra è in discesa. Il 5 stesso i carri di Israele prendono la striscia di Gaza, il 6 sfondano nel Sinai, il 7 i parà strappano alla Legione araba Gerusalemme vecchia, l'8 Israele è sul canale di Suez e Nasser esce dalla mischia, il 9 i parà assaltano il Golan, il 10 un ultimatum sovietico salva la Siria dalla disfatta mentre i carri di Dayan sono davanti al vuoto sulla via di Damasco. Alle 18,30 Israele accetta il cessate il fuoco. E' sabato, la guerra è scoppiata lunedì alle 7,45. È durata 130 ore: sei giorni e cinque notti. Il settimo giorno i guerrieri si riposano.
La pace difficile
La terza guerra arabo-israeliana è stata breve e non sarà l'ultima. Tel Aviv ha vinto la guerra ma non vincerà la pace. E scoprirà quella che Hegel chiama l'"impotenza della vittoria". Il Medio Oriente è terra di illusioni: per un attimo pare di intuire il respiro della pace, poi si scopre che è solo il fiato della tregua. Pochi giorni dopo la fine dei combattimenti un commentatore impietoso darà un calcio all'ottimismo: «Sarebbe meglio chiamarla battaglia dei sei giorni, perché la guerra continua».